“ Coi partigiani avevamo sperato, lottato, sofferto e rischiato; e l’avrebbero fatto ancora quando fosse necessario. Ma era il respiro di sollievo che si tira all’allentarsi di un immediato pericolo, il vitale respiro incosciente che permette all’uomo di sopravvivere alle peggiori tragedie.[…]

La partecipazione di Ada Prospero Gobetti alla lotta partigiana  fu immediata e senza riserve, coerentemente con la formazione ricevuta e con i suoi saldi principi democratici che si erano ben consolidati negli anni della frequentazione del “ più fervoroso e intellettualmente agguerrito gruppo della nuova generazione torinese” ( così lo definì Italo Calvino) che ruotava attorno alla figura di Piero Gobetti, con il quale Ada instaurò un rapporto intellettuale ( collaborò sin dal 1918 alla rivista Energie Nove, da lui fondata) e sentimentale (si unirono in matrimonio l’11 gennaio 1923.)

La traumatica esperienza personale che le toccò vivere, a seguito della violentissima aggressione  del 5 settembre 1924 al marito Piero, da parte di una squadra fascista, è nota.

Piero si rifugiò a Parigi,  dove esponenti antifascisti italiani come Gaetano Salvemini, Filippo Turati, Emanuele Modigliani, Francesco Nitti vivevano da esuli, e,  a causa dello stato di salute già precario, non sopravvisse alle  complicazioni  sorte dopo una bronchite.

Morì il 16 febbraio 1926.

Ada aveva 24 anni ed era madre di un figlio, Paolo, nato da appena due mesi.

Al momento dell’occupazione nazista di Torino,  Ada Gobetti è già un’esponente di spicco del Partito d’azione, alla cui fondazione (1941) aveva contribuito e possiede spiccate capacità organizzative che si concretizzano nella costituzione di un primo nucleo di partigiani nella borgata Cordola di Meana di Susa.

Fra i più convinti assertori della necessità di un movimento di opposizione all’occupazione c’è il figlio  Paolo che, all’epoca, ha 18 anni e la determinazione non inferiore a quella della madre,  di lanciarsi nell’azione.

Il 10 settembre 1943, mentre una fila di automobili naziste invade le strade di Torino, il gerarca Francesco Farinacci, da Monaco, via radio, comunica la ricostituzione del Partito fascista, dopo la parentesi dei quaranta giorni badogliani: “ E’ un vero incitamento alla guerra civile! “, scrive Ada Gobetti nel Diario e così prosegue:

“ Alzai le spalle con un senso di fastidio. Poco m’importava di Monaco e di Farinacci in quel momento; mi pareva che ci fossero cose più urgenti da fare: bruciare le carte intanto, soprattutto le schede di quelli che s’erano iscritti nei “Volontari della nazione armata” per il “Fronte italiano della resistenza.”

L’atto di bruciare  i documenti caratterizza Ada Gobetti come un personaggio che ha già  lunga esperienza in fatto di lotta politica,  profonda consapevolezza della gravità del momento e notevole risolutezza rispetto alle cose da fare:

Capivo, pur confusamente, che s’iniziava per noi un periodo grave e difficile, in cui avremmo dovuto agire e lottare senza pietà e senza tregua, assumendo responsabilità, affrontando pericoli d’ogni sorta. Tutto questo personalmente non mi spaventava; il mio ideale di bambina, di adolescente – e in fondo in fondo, ahimè, anche di persona adulta – non era stato forse «la piccola vedetta lombarda»? Ma tremavo per mio figlio che vedevo lanciato così decisamente verso l’azione”

Sia la casa di Meana,  sia quella di Torino sono già, da anni, luoghi di riferimento e di incontro di partigiani e antifascisti e tali rimarranno per tutta la durata dell’occupazione nazista:

“ 9 giugno, Torino. Giornata vertiginosa. Ho calcolato che oggi son passate in casa mia cinquantaquattro persone. E qualche volta mi chiedo se questo mio affidarmi all’istinto e alla sorveglianza di Espedita e alla benevolenza dei vicini non rasenti l’incoscienza. Ma poi mi dico che difficilmente il punto di riferimento rappresentato dalla mia casa sarebbe sostituibile”.

Della casa di via Fabro, a Torino, Vittorio Foa dirà che “ era in quei giorni, gli ultimi giorni prima dell’occupazione militare tedesca, una specie di crocevia del partito […] Ada era un prodigio di energia creativa e di grazia femminile. Ada possedeva una dote rara, quella dell’onnipresenza,  era presente anche se inattesa, nei momenti di difficoltà e di amarezza, presente ad aiutare, a consolare, a diffondere bene. Pensavo allora e penso anche adesso che la resistenza dei molti continuava l’antifascismo dei pochi.”

Diario partigiano, composto due anni dopo la liberazione, elaborando gli appunti scritti  in un inglese criptico (per non rischiare la vita, qualora fascisti e nazisti li avessero  rinvenuti), documenta la lotta armata dal 10-12 settembre 1943 al 26-28 aprile 1945 in Val di Susa, zona strategica per le comunicazioni con la Francia.

Ada Gobetti, fin dal settembre del ’43, assume  incarichi organizzativi e di coordinamento dei gruppi partigiani,  mantiene i collegamenti fra il Comando militare di Giustizia e Libertà (GL) e le formazioni operanti in Val Susa e nei vari centri del Piemonte.

Conduce le operazioni con l’abilità e la sicurezza di una dirigente di vecchia data; coordina lucidamente azioni militari, coinvolge la popolazione, tiene i rapporti con gli alleati, in Italia e all’estero.

Indimenticabile è la narrazione dell’attraversamento  del Passo dell’Orso, ( nei pressi di Bardonecchia)  al   confine tra Italia e Francia, a fine dicembre del ’44, allo scopo di stabilire contatti con gli alleati francesi, specialmente con le donne.

Con il figlio Paolo e con un gruppo di  partigiani, tra cui Bruno Salmoni e Paolo Spriano, Ada, avvolta in una coperta, si accinge a varcare il Passo. Via via che si sale l’assenza di una pista e soprattutto la pendenza, oltremodo ripida,  del tratto ghiacciato rendono pericoloso e impraticabile il percorso.

Alberto e Paolo si alternano  per formare dei gradini nel ghiaccio,  con la piccozza:

“ Ma quell’ultimo tratto si rivelò veramente difficile. Non c’era più la pista dei tedeschi, che l’altra volta aveva tanto facilitato il passaggio di Paolo e Alberto. Il vento aveva spazzato via la neve molle; e bisognava procedere facendo i gradini nel ghiaccio lungo un costone nudo, a forte pendenza, sopra uno strapiombo di due o trecento metri.”[….]

Dalla lettura delle pagine del Diario emerge la speciale attenzione rivolta alle donne,  derivata dalla profonda convinzione che il loro coinvolgimento  nella lotta partigiana prima e, nella fase della ricostruzione, dopo, avrebbe giovato non solo alla causa della Resistenza ma avrebbe innescato il processo di liberazione della donna, obiettivo che Ada Gobetti non ha perso  mai di vista durante tutta la sua intensa attività del dopoguerra.

Durante la fase della liberazione, incoraggia il loro coinvolgimento nella lotta partigiana e segue con interesse la formazione di  gruppi operativi di lavoro,  nati dall’adesione spontanea di donne di ogni età e condizione che si prestano ad azioni di cura e di aiuto:

Cercherò intanto di mobilitare le donne che conosco e convincerle a far calze e indumenti per i partigiani. Nulla convince della bontà d’una causa quanto il lavorare per essa. La donna, finora indifferente, che abbia fatto un paio di calze per i ragazzi in montagna — e a questo non è difficile convincerla — si sentirà impegnata e legata alla sua battaglia e sarà disposta domani ad affrontare responsabilità ben più gravi”.

Valorizzando alcuni tratti della specificità  femminile,  Ada Gobetti assicura alla lotta di Liberazione un vasto serbatoio a cui attingere per il ritrovamento di rifugi sicuri, per la raccolta di denaro, per il rifornimento di cibo, vestiario,  medicine,  tutte iniziative delicate ed essenziali per la lotta di Liberazione.

Dalle azioni di cura, le attività di molte donne si estendono al trasporto di armi, ordini, stampa clandestina, ormai ampiamente documentate dalla storiografia della Resistenza ( il Diario è una fonte straordinaria a cui attingere):

“ 7 aprile. Son stata da Irma, dove si son messe le basi per un sistematico invio di pacchi ai prigionieri politici di Torino che son circa un migliaio e che fanno la fame se non ricevon nulla di fuori. Irma si è offerta di cucinar delle torte; e sin da domani preparerà cibi per un gruppo di francesi che, non avendo parenti qui, sono in pessime condizioni. La bionda Paola Jarre s’incarica di portare i pacchi alle carceri: e penso che in molte circostanze il suo bel viso radioso gioverà ad ammansire qualche cerbero. Ritirati da Castagnone i manifestini sull’avvenuta fucilazione, me ne son preso un certo numero e, prima di partire, li ho appiccicati in diversi treni fermi in stazione e ancora pressochè vuoti; altri ne ho sparsi nel treno e infilati nelle borse e nelle tasche durante il viaggio; altri ancora ne ho lasciati, con l’aiuto di Cesare, nella stazione di Bussoleno, durante la fermata”.

Man mano che la partecipazione delle donne alla lotta antifascista si estende, si rende necessario il passaggio dall’organizzazione spontanea a quella più strutturata e capillare sostenuta dai partiti antifascisti e dal CLN.

Così scrive Ada Gobetti:

“ Quello che era stato un fenomeno di eroismo individuale e isolato, s’era trasformato sotto il pungolo del pericolo in movimento di massa”.

Ada svolge  un ruolo di primo piano nella fondazione di due  organizzazioni femminili nate durante la Resistenza: i Gruppi di difesa della donna per l’assistenza ai combattenti della libertà ( GDD ) ed il Movimento femminile Giustizia e Libertà.

In data 21 ottobre registra la prima riunione dei “GDD” durante la quale l’organizzazione comincia a prendere forma e realtà. La presenza di donne provenienti da varie formazioni politiche denota la volontà unitaria e pluralista che anima i gruppi:

 “ Al pomeriggio, in casa di Adriana, si tenne la prima riunione dei Gruppi di difesa al completo: c’eran le due comuniste che già conosco, Bruna e Lina, c’era Adriana e c’ero io per il Partito d’Azione; e c’era una socialista, Lina Merlin; e una liberale, e una democristiana. E s’eran tutte messe in ghingheri per l’occasione: una aveva la volpe, l’altra degli straordinari guanti traforati, una terza un curioso cappello con una penna rossa: solo le comuniste e io (Adriana è sempre naturalmente elegante) eravam vestite come al solito, alla buona; e non sapevamo se vergognarcene o provarne compiacimento. I discorsi furono un po’ come l’abbigliamento: molti complimenti, molte affermazioni astratte, molti riguardi per le reciproche suscettibilità. Non fu certo un convegno molto conclusivo, ma ne risultò chiara una volontà precisa, da parte di tutte, di lavorare lealmente insieme: e questo è indubbiamente un buon principio”.

L’estensione dell’organizzazione richiede ai responsabili capacità organizzative, prontezza di intuizione e conoscenza del territorio per prevenire infiltrazioni di spie e delatrici. Inoltre Ada coltiva l’ambizione di fondare un giornale clandestino redatto dal Movimento femminile di Giustizia e libertà che intende chiamare La nuova realtà.

 “   23 giugno. Alla riunione dei Gruppi di difesa abbiam diviso la città in cinque quartieri. Il lavoro d’assistenza ha acquistato ormai dimensioni notevoli e la divisione s’imponeva. A ogni quartiere presiederà un gruppo di donne (possibilmente una per partito) che provvederà a distribuire, col denaro fornito dal Cln, sussidi alle famiglie dei prigionieri politici, dei deportati, dei partigiani. È un lavoro delicato perché bisogna trovare queste famiglie e avvicinarle senza insospettirle e senza crear loro dei guai: è un’attività che richiede qualità di prontezza e d’intuizione. Finora le donne a cui per parte mia ho affidato l’incarico han funzionato molto bene; speriamo che, coll’ampliarsi del lavoro e quindi coll’aumento degli elementi impiegati, il livello non si abbassi”.

Il Diario è un prezioso resoconto di eventi pubblici e privati: imboscate, ritorsioni, paure, torture, rischiosi spostamenti da una città all’altra,  la messa in gioco della vita sono registrati, quasi quotidianamente,  ed è senza pari l’emozione di rivivere l’atmosfera di quei giorni, compresi  gli stati d’animo di Ada Gobetti, attraverso la ricostruzione di una partigiana d’eccezione.

Pagine come la seguente sono preziose testimonianze  della sovrumana lotta femminile:

 “  21 ottobre. Partita per Milano l’altro ieri alle tre del pomeriggio, ho dovuto fare a piedi il tratto Brandizzo-Chivasso, con allarme durante il trasbordo; poi di nuovo, in piena notte, i sei chilometri da Vercelli a Borgo Vercelli, arrivando a Milano alle tre del mattino; sino alle cinque, ho potuto starmene a leggere nel caffè della stazione, ma poi l’han chiuso e allora ho dovuto rifugiarmi nella sala d’aspetto piena di povera umanità stanca, seccata e maleodorante dove, se ho voluto sedermi, ho dovuto mettermi in terra. Appena giorno, sono uscita e, attraversando a piedi tutta Milano, sono andata da Adriana. Ho visto poi Vittorio, con cui ho passeggiato a lungo parlando di tante cose e anche del problema delle donne che in questi giorni particolarmente mi affligge. Poi sono andata a una scuola a cercare una maestra amica; ma c’ero appena arrivata quando suonò l’allarme: vidi con angoscia la disorganizzata lentezza con cui le maestre spaventate guidavano i bambini negli inadeguati rifugi e pensai rabbrividendo a quel che sarebbe accaduto se una bomba fosse caduta sulla scuola. Trovar la maestra in quella confusione non era possibile e perciò me ne andai prima che l’allarme fosse terminato. Seppi ben presto che quanto avevo paventato per la scuola in cui occasionalmente mi trovavo era accaduto in realtà in una scuola alla periferia, a Gorla: una bomba aveva colpito in pieno l’edificio, facendo strage dei bimbi indifesi. Mentre m’avvicinavo a Porta Vittoria, dove c’è un ambulatorio, vidi arrivare una serie d’ambulanze cariche di piccole creature orrendamente straziate. La gente guardava costernata, con un’angoscia piena di collera impotente: molti uomini e donne piangevano; a un certo punto m’accorsi che anch’io singhiozzavo forte”.

In Diario partigiano la morte è in ogni luogo e infuria con la sua inesorabilità. Ada Gobetti dedica pagine sconvolgenti, piene di pathos, sia  alla morte raccontata dagli altri che hanno visto morire partigiani e persone comuni, sia  alla morte vista in diretta quando  si trova  al cospetto di corpi straziati:

 “ C’è una differenza enorme tra vedere e sentir raccontare, sia pure con la maggior ricchezza di particolari. E s’anche ci si può sentimentalmente commuovere […] dinanzi agli alberi schiantati e alle case in rovina, nulla, neanche la distruzione dei più giganteschi edifici e delle opere d’arte più famose è neppur lontanamente paragonabile alla soppressione di un’unica, piccola, insignificante vita umana. Mi pareva che non avrei mai più potuto sorridere […]: quando l’ordine dell’universo è sconvolto, non si può credere neanche alla realtà del sole”.

Subito dopo l’assalto al ponte di Pomeifrè, Ada esplora, nei dintorni, ogni angolo di strada, alla ricerca del figlio, straziata dal terrore di trovare il suo corpo dilaniato:

“ A poca distanza dal Pomaretto, vedemmo, ferme sul ciglio della strada, un gruppo di donne, di cui una con un bimbo addormentato in una carrozzella. Capimmo, dal loro atteggiamento e dall’espressione del loro volto, che doveva essere in quel punto. E infatti, nel breve tratto di prato, fra la strada e la roccia della montagna, seminascosto da un mucchio di sassi, giaceva il partigiano ucciso.

 No, non era Paolo, anche se non se ne scorgeva il viso, reclino. Ma non provai nessuna reazione di sollievo. Una pena insostenibile mi scosse tutta alla vista di quella giovane carne denudata e straziata, come se fosse stata la mia stessa carne, quella di mio figlio. Mai come in quel momento sentii quanto sia forte l’istintiva profonda solidarietà materna per cui ognuna sente come figlio suo ogni figlio d’ogni altra donna”.

“ 12 ottobre. Franco Dusi è morto fucilato, nel Canavese. Penso a sua madre. Ma penso soprattutto a lui: a lui come lo vedevo bambino quando andavo a prender Paolo alle elementari e sorridevo al suo visetto arguto e alla sua aria di ponderata importanza; e ricordo quando venne a dar l’esame d’ammissione al «Balbo» e sbalordí tutti con la sua conoscenza del sistema alpino; e come lo vidi crescere, anno per anno, accanto a Paolo. Me li vedevo dinanzi, nello stesso banco, a scuola, e perpetuamente cianciavano e si litigavano; e me li vedevo insieme a casa quando preparavano la licenza e traducevamo Sofocle e leggevamo Dante e Spinoza; e preparavamo le voci per il Dizionario Bompiani; e si andava insieme in montagna. E sempre provavo, guardandolo, cosí bello e forte e intelligente, un intimo materno compiacimento e per lui, come per Paolo, costruivo i sogni piú belli. E quando venne l’ora del pericolo, cercai di tenerlo fuori, quasi dominata da un timore presago. Ma Franco entrò lo stesso nella battaglia; non era uno che potesse starsene fuori. E ora è caduto. Pare impossibile, dopo simili colpi, poter continuare a camminare”.

Il 31 ottobre,  il figlio Paolo e altri due compagni, Giulio e Alberto, partono in missione per proporre ai partigiani francesi un piano per conquistare  il Passo dell’Orso, disarmando e facendo prigionieri i 18 soldati tedeschi  di guardia.

Così Ada Gobetti confessa la sua costernazione di madre:

[…] e ancora mi chiedo come feci a resistere a quell’ansia spaventosa. Non era In prima volta che stavo in pena per Paolo; ma le altre volte s’era trattato al massimo di tre o quattro giorni e sapevo sempre, con maggiore o minore precisione dove si trovava e dove avrei potuto cercarlo. Ora invece brancolavo nel buio, in un vuoto in cui mi pareva a tratti d’impazzire.[….]

Ma nei rari momenti di sosta, quand’ero sola, avevo delle vere crisi di disperazione e urlavo come una bestia ferita.”

A missione compiuta, quando Paolo e gli altri, sfuggiti al pericolo, rientrano  a Torino,  avverte uno stato di ebbrezza vertiginosa:  

“ Sedetti allora sui gradini della chiesa e chiusi gli occhi per un attimo. Mi pareva che l’universo intorno ruotasse, come impazzito, e continuavo intanto a dire a me stessa: “No, non è possibile, sono troppo felice”. Quando li riaprii, ebbi per un momento l’impressione di non riconoscere il posto dove mi trovavo: eppure eran gli stessi monti, lo stesso cielo, gli stessi boschi, le stesse case; ma avevano come una qualità nuova; e l’aria che respiravo mi sembrava frizzante, esilarante come una coppa di spumante. Non provavo più nessun senso di stanchezza né di peso; mi pareva che, aprendo le braccia, avrei potuto alzarmi nell’aria e volare”.

La pietà per le giovani vittime, in nome di quella solidarietà naturale che si instaura tra tutte le madri, si estende anche ai giovani tedeschi che combattono sul fronte opposto,  figli anche loro di altre madri:

“Andammo a mangiare in una trattoria. Anche là c’eran dei tedeschi: dei bei ragazzi biondi, allegri. Spogliati dalle divise, dai simboli odiati, in che cosa eran diversi dai nostri? Pensai che se ci fosse stato uno di loro al posto del giovane Davide, avrei provato la stessa ribellione e la stessa pena. Ricordai le parole d’una semplice vecchietta di Meana, che aveva un figlio in Africa durante la guerra. – Prego per lui e prego per tutti. Per tutti. Anche per gli altri”.

Ada madre, deve affrontare l’angoscioso dilemma se tutelare Paolo dai rischi quotidiani che la lotta comporta o assecondare l’entusiasmo che legge nei suoi occhi e nel cuore di tanti altri giovani,  inebriati dal sogno dell’ Italia libera, giovani disposti a  imbarcarsi in avventure rischiosissime,  giovani  che si votano al sacrificio della vita come, in fondo, aveva fatto il marito Piero.

In una commovente pagina, alla vista di un ponte,  nei pressi di Massello,  distrutto a seguito della battaglia tra partigiani e tedeschi, rievoca Piero, citando le sue considerazioni sui  “ volontari della morte” razionalmente lucide e,  contemporaneamente, sconvolgenti:

“ II saggio di Piero su Matteotti non finiva forse dicendo: «La generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa: dei volontari della morte per ridare al proletariato la liberta perduta»? E questi «volontari della morte» non eran forse i ragazzi che combattevano su quei monti la loro disperata battaglia? E non c’era una superiore, logica giustizia nel fatto che in questa generazione ch’egli aveva, con l’opera e con l’esempio, voluto creare, ci fosse, animato dal medesimo spirito, anche il figlio suo? E ancora una volta mi dissi che, s’anche mi fosse stato possibile, non avrei mai cercato di trattenere Paolo, di tenerlo al sicuro. Ognuno porta con sé un destino, che non è ordito dagli astri, ma determinato dalle qualità intime di ognuno: e il più grande delitto contro la vita è rinnegar queste qualità per debolezza o per paura. Pur nella sua breve esistenza, Piero aveva compiuto il suo destino, assolto il suo compito, detta la sua parola. Paolo s’affacciava appena alla vita come un frutto non maturo ancora, gonfio di traboccanti promesse. Ma soltanto l’imperfezione della nostra vista esige la conferma di risultati sensibili e concreti. Ci son gesti, apparentemente, razionalmente inutili, che hanno invece un significato ineluttabile e profondo. Non c’era in questi pensieri nessun sorriso d’umana consolazione: eran come l’arido scoglio inospitale a cui il naufrago disperatamente s’aggrappa benché le asperità lo feriscano e non consentano riposo. Non volevo, non potevo naufragare; e riuscii, pur nell’angoscia, a ricondurmi a un certo doloroso equilibrio”.

Le  madri dei giovani partigiani, lacerate dalla penosa ricerca del doloroso equilibrio,  ignare di  quale avvenire si prospetti  per i figli, hanno qualcosa di speciale, di eroico, di sovrumano.

Per l’uscita dall’oscurità del fascismo e della guerra,  altrettanto speciale, eroico, sovrumano, necessario,  è quello  stato di grazia,  da preservare senza eccezioni, che Ada intravvede  nei  giovani, ovvero, il “gioioso entusiasmo”, da lei definito “il vitale respiro incosciente che permette all’uomo di sopravvivere alle peggiori tragedie”:

 “ Nessuna considerazione di nessun genere deve poter diminuire o togliere ai giovani quella spontanea fioritura di gioioso entusiasmo che è il “primo amore,” sia esso per una donna, per un paese o per un’idea, o forse per tutte queste cose insieme. Ho letto negli occhi di Franco ch’egli sta ora vivendo quest’ora meravigliosa e senza uguale”.  

Nel Diario, più volte, torna il concetto della Resistenza come evento straordinario che ha consentito a  un grande numero di persone la condivisione di alti valori: “ Oggi è «onesto» chi affronta la morte per rimanere fedele al proprio concetto morale. Ed è meraviglioso che in questo momento il concetto sia lo stesso per il prete come per il comunista. Mai forse prima d’ora c’è stata in Italia simile unità. Purché duri attraverso la prova – e oltre”.

Ada Gobetti, protagonista e partecipe di quel clima  speciale, è anche consapevole di quanto sia difficile trasmettere e dare stabilità agli alti valori condivisi al tempo della lotta partigiana. Quando il suo sguardo va oltre e si proietta, lucido, sull’Italia del dopoguerra, non nasconde le sue preoccupazioni sull’ inevitabile  riaffermazione, dopo la guerra, di interessi, abitudini, pregiudizi, contro i quali si sarebbero dovute combattere altre battaglie.

Da qui l’appello ai protagonisti di quella straordinaria esperienza e anche alle generazioni future, ad assumersi la responsabilità di vigilare sempre, senza eccezioni, su noi stessi, prima di tutto, affinché la normalità non spenga “la piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna” accesa al tempo della lotta partigiana.

Con la ricostruzione della giornata del 26 aprile che segna l’alba della Liberazione, Ada Gobetti si avvia verso la conclusione della narrazione e intanto che trascrive  le troppe cose da preparare per l’indomani, è anche sopraffatta da un incontenibile flusso di ricordi che fissa sulla carta,  affinché l’esperienza della lotta partigiana rimanga  indelebile  nella memoria storica e segni in profondità le nostre coscienze:

“ [….] ma il passato mi premeva, invincibile, sulla memoria e sul cuore. Tutto il passato, tutta la nostra battaglia: dal 10 settembre, con quei primi tedeschi, impassibili, agli angoli delle nostre strade; e poi le prime armi, e il sabotaggio ai ponti, e la neve, e i primi caduti; e poi la Germanasca e il rastrellamento, e la tragica luce del cielo di Massello; e poi la Val Chisone e il valico del Colle delle Finestre, tutto fiorito di rododendri; e l’incendio di Meana e il povero ragazzo impiccato; e poi Beaulard e la capanna, e la Francia, e il ritorno e l’interminabile notte sul ghiacciaio. «Donne piemontesi», incominciavo; e poi di nuovo la mia mente si smarriva: contavo i morti, ne richiamavo i volti e la voce: Braccini, Sandro Delmastro, Paolo Diena, Franco Dusi, Duccio, Albertino… Mi riscuoteva un crepitar di legna sul fuoco, lo scricchiolio della penna instancabile di Silvia. Ricominciavo: «Donne piemontesi…» Solo verso il mattino mi decisi a concludere. «Tutte le donne hanno oggi un lutto nel cuore, — dissi. — Fate che questo lutto non sia stato vano». Cosí, press’a poco. In quel momento non sapevo dir altro. Ed ero stanca come se avessi scritto un intero volume”.

In quell’appello rivolto alle donne in cui si ribadisce il loro insostituibile ruolo nella lotta partigiana (non scontato fra i politici e gli storiografi, all’epoca della scrittura del Diario), si può leggere il suo intimo desiderio di un loro coinvolgimento anche nel processo di ricostruzione che è in procinto di avviarsi, peraltro, già manifestato al momento della progettazione  della testata giornalistica clandestina  “ La nuova realtà”, nell’agosto 1944:

 “ La nuova realtà è proprio quella che tutti, uomini e donne, vogliamo creare per il domani. Ma ci riusciremo?”.

Fra gli eventi di quel 26 aprile, uno, in particolare, si imprime nella mente: la riunione delle donne attorno al fuoco del camino. Il racconto avvincente, denso di suggestioni ed emozioni, lascia trapelare un meraviglioso sentimento di reciproca solidarietà che si è instaurato fra le donne e una generosa e tenace volontà di lotta e l’autrice coltiva il segreto desiderio che questa straordinaria complicità possa consolidarsi, protrarsi nel tempo e contribuire alla realizzazione concreta di quel mondo di “ giustizia e libertà”, sogno sublime,  per il quale Ada Gobetti si è battuta:

 “ Quando fu sera, gli uomini se n’andarono, e rimanemmo una decina: c’eran le Ricci, Carmelina, Pinella, Alda, Ester. E non c’era da pensare che tutte potessero andarsene: attraversar la città era estremamente pericoloso e più pericoloso forse sarebbe stato riattraversarla il mattino dopo: inutile farlo senza vera necessità. Decidemmo quindi di rimanere insieme; rinunciai naturalmente a far la scappata a casa che avevo sperata; a un certo punto arrivò Jacopo e disse che avrebbe passato la notte con noi; e fui lieta di poter dividere con lui — membro del CMRP — la responsabilità che sentivo gravare su di me.

 Pinella preparò un po’ di cena, accese il fuoco nel caminetto. Regnava una gran pace intorno, rotta soltanto di quando in quando da qualche sparo lontano; e il tepore del fuoco e la sicurezza che ci dava l’essere insieme e il sentire di volerci bene, d’essere tutte l’una per l’altra, la sensazione che non eravamo sole ma che lo stesso sentimento che ci univa era quello che animava nella nostra città, nel nostro paese, e anche al di là delle frontiere, tutti gli uomini e le donne di buona volontà — ci diede un senso di distensione, quasi di gioia, a cui più o meno incoscientemente ci abbandonammo. E ci mettemmo a cantare: canti montanari, d’Italia e di Francia, canzoni partigiane, quelle che già conoscevo e quelle —delle formazioni del Cuneese — che ancora non avevo udito mai. A un tratto m’accorsi che in un angolo, in ombra, Ester piangeva: per lei la liberazione imminente non poteva essere gioia, perché Sandro non sarebbe tornato. Anche Carmelina aveva gli occhi pieni di lagrime: anche per lei l’attesa era senza speranza. E nei malinconici occhi buoni della Nenne era vivo il ricordo della sorridente vitalità d’un altro fanciullo per sempre scomparso. E chi poteva dire se ciascuna di noi, prima della fine, non avrebbe dovuto piegarsi ancora sotto una nuova tragedia, un nuovo lutto? Tacemmo a lungo, ognuna con la sua ansia, con la sua pena: che non era chiusa ed egoistica, ma solidale e comune. Quando ci guardammo di nuovo negli occhi, tutte quante sentimmo di poter sorridere; senza parole inutili, ci eravamo profondamente comprese: i nostri morti, quelli di oggi, quelli di domani, quelli di ieri, erano con noi; e sarebbero stati con noi sempre; per noi e per tutti”.

Concetta Cartillone

Diario partigiano -Brani scelti

“ Piú che mai sentivo di dover rimanere nella mia casa, che il mio istinto non mi diceva in pericolo, e che avrebbe potuto essere per molti forse l’unico punto di riferimento. Decisi comunque che saremmo partiti per Meana nel pomeriggio. Il lunedí — eravamo di sabato — almeno io sarei tornata. Presi accordi con la portinaia, la valorosa Espedita che per venti mesi instancabilmente, giorno e notte, vegliò su noi e sulla nostra casa e a cui credo che dobbiamo in gran parte l’inverosimile nostra incolumità. Pregai l’avvocato Cattaneo, che abitava allora al pian terreno, di spostar su una determinata finestra la gabbia dei canarini, qualora ci fosse stato qualche allarme, affinché non dovessi trovarmi involontariamente in gabbia anch’io. Alla stazione, tra la folla che pareva l’abituale massa di «sfollati», tutto era come al solito: c’eran soltanto i tedeschi di guardia, impassibili e nemici, come isolati da un cerchio magico. — Che differenza da ieri mattina, — sentii dire dietro di me. Mi volsi: eran due giovani in tuta; evidentemente erano stati anch’essi alla riunione alla Camera del Lavoro; e nei loro occhi increduli c’era la stessa nostra pena. Ma lo scoramento più doloroso lo vidi nei soldati che, risalendo la valle, incontrammo nelle stazioni e soprattutto a Bussoleno. Erano i resti della IV Armata che, dopo aver tentato di resistere e combattuto al Moncenisio e a Modane (qualcuno era riuscito a ostruire la galleria del Frejus), s’eran trovati senza capi, senza direttive. Sbandati, altro non cercavano ora che sfuggire ai tedeschi, tornarsene a casa. Dopo tre anni di «naia» subita senza convinzione, per due giorni avevan veramente creduto di dover combattere; ma s’eran trovati soli; e alla fiammata d’entusiasmo eroico tanto più grevi eran successe la delusione e l’amarezza. Qualcuno aveva bevuto per stordirsi, qualcun altro cercava d’esasperare in sé un senso di sollievo con l’idea che per lui ormai la guerra era finita. Ma sollievo ed ebbrezza sapevan di disperazione; e una tristezza senza conforto nasceva dallo spettacolo di quell’inutile forza e di quell’inutile dolore. E come sempre, nei momenti più tragici, accanto alla bontà generosa dei molti (migliaia di soldati fuggiaschi furono in quei giorni, nella Val Susa, forniti d’indumenti civili) si rivelava il sordido egoismo di alcuni. Quando il treno lasciò la stazione, mi rimase negli occhi il gesto d’un tale che, tenendo in mano una vecchia giacca, cercava di contrattarne il prezzo con un soldato ubriaco e seminudo. Giungere a Meana fu come ritrovare un dimenticato paradiso. Qui la dissoluzione non era ancor giunta. Tra i castagni dorati dal tramonto, rientravano i carri, carichi di fieno; da ogni casa si levava nel cielo il fumo del focolare. S’udivan giochi di bimbi, gridar d’animali. Come se tutto il mondo fosse in pace.”

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“ Il mattino seguente – era domenica – dopo una notte di sonno e la prospettiva di un’intera giornata di pace, ebbi finalmente agio di pensare. Capivo, pur confusamente, che s’iniziava per noi un periodo grave e difficile, in cui avremmo dovuto agire e lottare senza pietà e senza tregua, assumendo responsabilità, affrontando pericoli d’ogni sorta. Tutto questo personalmente non mi spaventava; il mio ideale di bambina, di adolescente – e in fondo in fondo, ahimè, anche di persona adulta – non era stata forse la «piccola vedetta lombarda»? Ma tremavo per mio figlio che vedevo lanciato così decisamente verso L’azione. Cercai di parlargliene nel pomeriggio, sul terrazzo dominato dal Rocciamelone, legato al ricordo di tante ore lontane d’innocente riposo e di giochi sereni. Ma, forse per reazione, Paolo esecra i romantici atteggiamenti eroici che costituiscono il fondo del mio carattere anche se, con lunga e dolorosa disciplina, ho sempre tentato di frenarli. Non c’era bisogno li prender decisioni, disse. Ci avrebbe pensato la situazione stessa a dirci quel che bisognava Fare.”

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10 dicembre. Oggi è venuta da me una donna comunista a parlarmi dell’organizzazione femminile di cui dovrò occuparmi. È semplice e simpatica e si fa chiamare Rosetta. L’organizzazione si chiama «Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà». Non mi piace; in primo luogo è troppo lungo; e poi perché «difesa» della donna e «assistenza» ecc.? Non sarebbe più semplice dire «volontarie della libertà» anche per le donne? Comunque, ho letto l’abbozzo d’un manifestino che i Gruppi dovrebbero diffondere; e il tono ide parso giusto. Non vi si parla affatto di diritti femminili, come poteva far pensare la parola «difesa»; si cerca invece di spiegare alle donne semplici il significato della nostra guerra e come, in quanto donne, possano collaborarvi. Il tono, un po’ pedestre, non manca però d’una certa efficacia. Incomincio a capire che cosa può voler dire oggi «lavoro tra le donne». Si tratta di parlare il linguaggio che meglio può fare appello alle qualità femminili: ché, pur affermando una teorica uguaglianza, bisogna riconoscere resistenza di differenze profonde che creano sensibilità, interessi, impulsi diversi. Con noi dovrebbero lavorare anche una donna socialista, una liberale, una democristiana: ma per ora non ci sono ancora. Incominceremo noi. Cercherò intanto di mobilitare le donne che conosco e convincerle a far calze e indumenti per i partigiani. Nulla convince della bontà d’una causa quanto il lavorare per essa. La donna, finora indifferente, che abbia fatto un paio di calze per i ragazzi in montagna — e a questo non è difficile convincerla — si sentirà impegnata e legata alla sua battaglia e sarà disposta domani ad affrontare responsabilità ben più gravi.”

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“ 28 dicembre. Oggi Paolo compie diciotto anni; son tanti, e son pochi per quel che deve affrontare; e a volte mi sembra piccolissimo, e a volte un uomo.”

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“ 31 dicembre, Meana. Siamo arrivati qui questa sera. Dopo gli ultimi, ripetuti attentati, la linea è molto sorvegliata. A ogni casello, prima deserto, ci sono ora dei prigionieri russi: russi traditori, russi bianchi. (Ma chi sa che non si riesca a «lavorarli»; dopo tutto, a loro che cosa importa?) Sul treno raccontavan storie terrificanti della loro violenza, avidità e lussuria. Ma a Meana è tutto tranquillo e, benché ce ne sian molti alla stazione, non han però compiuto nessuna particolare efferatezza. Ed eccoci qui, in attesa dell’anno nuovo. La stufa è accesa e a un dolce tepore. Incisa sul camino è una data lontana: 31 dicembre 1934. Allora ci si veniva per divertirci e Paolo era così contento di trovar tanta neve. Mi par di vederlo dormire, piccolo piccolo nel lettino improvvisato in questa stessa stanza, col berretto di lana bianca col fiocco. Era un bambino allora, un bambino felice, che sognava i giocattoli, e il teatrino, e la montagna, e gli sci. Ma oggi io non posso più nulla per lui: o quasi nulla. I suoi problemi deve risolverli da solo, e sa risolverli da solo. Posso cercar soltanto di non paralizzare la sua iniziativa, il suo impeto vitale. Mi sforzerò di non farlo mai.”

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“  21 febbraio. È arrivato da Torino il padre di Gianni, evidentemente spaventato dalla notizia della pena di morte: par che voglia farlo andare in Svizzera. Gianni naturalmente non vuole; ma riuscirà a resistere? […]

A casa ci aspettavano Gianni e Pillo. Gianni era imbarazzato, straziato: non ha il coraggio di ribellarsi a suo padre, non sa controbattere le sue ragioni, né resistere alle lagrime di sua madre. Questa sera scenderà a Torino anche lui: e in settimana passerà in Svizzera attraverso un valico nella Val d’Aosta. Paolo non ha detto una parola; ma l’ho visto impallidire e ho capito ch’era un colpo grave per lui – un colpo simile a quello avuto il 10 settembre vedendo Torino cedere ai tedeschi senza resistere. Nemmeno io, del resto, seppi dire gran che. Non potevo, in coscienza, spingere il figlio a ribellarsi contro il padre, ottima persona e animata dalle migliori intenzioni. Avrei potuto farlo se avesse cercato di convincerlo a presentarsi ai tedeschi; ma in fondo non cerca che di salvarlo; e dal suo punto di vista forse ha ragione. Anch’io, malgrado tutto, tirerò un respiro di sollievo quando saprò che Gianni è al sicuro: ragazzi come lui non se ne trovano tanti e preservarli per il domani è forse un dovere.”

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“1°  marzo, Torino. Stamane, appena giunti a Torino, ecco Gigliola, raggiante, con una magnifica rivoltella d’ordinanza tedesca. Iersera, nel ristorante in cui pranzava con Franco, n ufficiale tedesco appese a un attaccapanni il mantello col cinturone e l’annessa rivoltella. Gigliola lo coprì col suo, poi, al momento d’andarsene, tolse la rivoltella dal fodero, se Infilò nella borsetta, rinchiuse la busta e se ne andò tranquillamente. Le ho consigliato di non farsi più vedere in quel ristorante almeno per un po’ di giorni; ma è proprio questo il genere di lavoro per cui è più adatta Gigliola col suo esuberante coraggio fisico e la sua monelleria da ragazzaccio. Ci sono altre ragazze del suo tipo, anche se non proprio come lei. Perché non potrebbero farlo sistematicamente, per esempio nei tram affollati, nelle ore buie? Voglio provare io stessa una di queste sere.”

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 “ 2 marzo. Ho accompagnato Paolo nella Val Germanasca. Prima di partire, m’ero detta: «Nervi a posto. Non c’è nulla di drammatico». E infatti non c’è proprio stato nulla di drammatico. Il viaggio è andato benissimo: fino a Pinerolo in treno, poi col trenino a Perosa. Colà giunti, chiedemmo discretamente la strada per la Germanasca; e tutti a darci indicazioni con entusiasmo, con aria d’allegra complicità, come se dicessero: – Eh, sappiam benissimo ove andate! – Il che, se da una parte mi faceva ridere, dall’altra mi preoccupava. Una donna, una veneta, si mise addirittura al nostro fianco e ci accompagnò, decantandoci intanto la vita che si faceva alla Gianna: – Andate alla Gianna, non è vero? (Come si faceva a dirle di no?) C’è anche mio figlio. Ci stan benissimo. Han persino la fisarmonica! – Allora sono a posto, pensai; e, approfittando della sua loquacità, le chiesi se c’era qualche mezzo che ci evitasse di fare i sedici o diciassette chilometri di strada a piedi. – Una volta c’era la miniera, ma ora non funziona più, – mi rispose. – Può approfittare dei camion della talco-grafite che van su e giù o di qualche carro privato. Ecco, per esempio, il biroccio del riere di Perrero. Ehi! – Fece col braccio un cenno verso un vecchietto che stava mettendo in moto un vecchio calesse sgangherato su cui stavan già vari bagagli più una ragazza con n’enorme valigia. Il vecchietto fermò il cavallo e attese che ci avvicinassimo. – Potete portar su questo ragazzo e sua madre? Vanno dai partigiani. – Salite, – disse il vecchio, con un ampio gesto della frusta. – Grazie e arrivederci, – ebbi appena il tempo di gridare alla donna, mentre la vettura muoveva traballando.

 Mentre s’usciva dal paese, in una delle ultime botteghe vidi due giovani armati con giacche mimetizzate. – Son tedeschi? – chiesi a Paolo, portando istintivamente la mano al seno dove tenevo nascosta la rivoltella. – Macché! – rise Paolo. – Son partigiani. Avevo notato infatti nel loro vestiario qualcosa di non regolamentare; ma mi fece un certo effetto vederli circolare armati, liberamente. Che davvero fosse questa la Terra Promessa? E io che mi preoccupavo di lasciarci Paolo! Il cavallo, trottando pian piano, s’inoltrava intanto nella valle che si veniva facendo sempre più stretta, con svolte e chiuse angustissime. C’era il sole ma, nelle zone in ombra, faceva un freddo terribile. Capivo come si potesse tenere una valle così naturalmente difesa, e mi consolavo pensando che sarebbe stato facile impedirne l’accesso ai nemici. Il vecchio non era loquace e neanche la ragazza: disse soltanto che tornava a casa dopo esser stata a servizio. – Vuoi vedere i partigiani, eh? Ti piacciono i bei ragazzi! – fece il vecchio in patois, agitando la frusta. A Perrero, la vettura si fermò: proseguimmo a piedi finché non trovammo un camion della talco-grafite che ci portò sino alla svolta per Maniglia. Poi continuammo, in compagnia d’una ragazza, sorella d’un partigiano, che veniva da Barge e che faceva la «staffetta». A mezzogiorno eravamo a Pomeifrè, gruppetto di case all’ombra della montagna, da cui parte la scorciatoia per la Gianna. – In mezz’ora ci si va, – disse la ragazza. Per tutto il viaggio lungo la valle m’aveva colpita l’atmosfera di normalità, di tranquilla sicurezza: nessuno si nascondeva, nessuno aveva paura. Questa è dunque la libertà. Calmo lavoro e tranquillità dominavano anche alla Gianna, grande edificio creato per il personale della talco-grafite e occupato ora dal Comando partigiano. Con le sue molte finestre spalancate al sole, coi ragazzi abbronzati, a braccia o torso nudo, che muovevan sullo spazio davanti e sulle terrazze, sembrava una clinica o un grande albergo; e la guerra e il pericolo apparivan sempre più lontani. Il comandante, Roberto Malan, ci accolse con cordialità. – Penso che ti manderò a Praly, – disse a Paolo, – a fare il commissario politico con Emanuele. Il commissario, -s’affrettò ad aggiungere, – è un partigiano come gli altri, che fa tutto quel che fanno gli altri; in più cerca d’educar politicamente le reclute che continuano ad affluire sempre più numerose. In quel momento arrivò Zama, lo straordinario sudamericano, più volte morto e risuscitato, di cui avevo tanto sentito parlare. Mi colpi il suo aspetto «usato» mentre sapevo che doveva esser giovanissimo. Era venuto ad avvertire Roberto che quella sera si sarebbe compiuto un colpo importante alla Riv e che bisognava quindi scender subito nella valle per prender gli ultimi accordi. – Vuol che la porti giù? – offri cortesemente. – Andiamo con la mia moto, io, lei e Roberto, sino a Pomeifrè: lí prendiamo una macchina -. Dissi che sarei scesa a piedi: due su una motocicletta, data la strada ghiacciata, mi parevan un carico più che sufficiente;  d’altra parte, scaraventandomi giù per la scorciatoia, sarei arrivata a Pomeifrè prima di loro: lí avrei volentieri approfittato della macchina. Salutai Paolo, senz’angoscia particolare: era tutto cosí calmo, cosí sicuro, cosí sereno. Corsi giù in mezzo alla neve, ripetendo a me stessa: «Hai visto? Tu che t’affannavi tanto!» e, come avevo previsto, giunsi a Pomeifrè prima della moto. Mi sedetti ad aspettare sulla spalletta del ponte. Le rive del torrente erano ancor coperte di ghiaccio ma, nei punti in cui batteva il sole, c’eran già degli alberi coperti di gemme. «La primavera torna!» canterellavo tra me; e volevo sentirmi lieta a ogni costo. A un tratto vidi arrivar la moto, ma con Zama soltanto: Roberto l’aveva rovesciato qualche metro prima; mi rallegrai di non aver condiviso la sua sorte e, quando lo vidi arrivare scuotendosi la neve di dosso, mi avviai con lui verso il basso, mentre Zama preparava la macchina. Se ci raggiungeva, bene; ma non volevo correre il rischio di perdere il trenino a Perosa. Per via, Roberto m’indicava le punte, le svolte: – Lì abbiamo una mitragliatrice, là un posto di guardia, lì una vedetta -. E ascoltandolo mi convinsi sempre meglio di quel che avevo pensato all’andata: che cioè la conformazione della valle è tale che basta rafforzarne le difese naturali per renderla pressoché inespugnabile. Presto Zama ci raggiunse con la macchina che mi depositò a Perosa un’ora prima della partenza del trenino. Entrai in un caffè-pasticceria e chiesi un surrogato. La padrona, che al mattino m’aveva vista passare con Paolo, mi trattò con cordialità affettuosa. – È suo figlio quel bel ragazzo? Oh, vedrà che si troverà benissimo! – E mi mostrò i suoi bambini, un maschio e una femmina, di quattro e sei anni, bellissimi. – Ora va tutto bene, perché ci sono i partigiani, – disse. – Ma prima, quando c’erano i tedeschi, vivevo in una paura continua. Speriamo che non tornino! – Speriamo! – feci eco con tutto il cuore. All’ora giusta presi il trenino, poi, a Pinerolo, il treno e, giunta a casa, trovai Ettore che, con Giancarlo Scala e Volante, fabbricava altri strani, diabolici congegni. E domani si riprende la solita vita.”

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“ 23 marzo. È comparsa anche una «donna» liberale, Irma, che ha messo a nostra disposizione un suo appartamento semi-sinistrato in cui abbiam tenuto oggi una prima riunione. Oltre a Irma e alla Rosetta, che già conoscevo, c’erano anche Bianca, e Noela Ricci, sorella d’un collega di tribunale di Giorgio, bella, coraggiosa, intelligente e fornita di due simpatiche sorelle disposte a lavorare. I «Gruppi di difesa» stan prendendo forma e realtà. Siccome i fascisti han fatto in questi giorni una campagna per costringere i professori statali a giurar fedeltà alla Repubblica di Salò, abbiam stimato necessario parare e controbattere la minaccia con una propaganda contraria. È evidente che si tratta di pura stupidaggine e voglia d’infastidire da parte delle gerarchie fasciste: credo che ai tedeschi importi ben poco del giuramento dei professori. Se nessuno risponde, la cosa cade da sé. Ma c’è pericolo che un certo numero di professori ci si butti dentro per quella stupida «vigliaccheria superflua» così tipica degli italiani del nostro tempo. Bisogna quindi incoraggiare gl’incerti, spaventare i paurosi con minacce in senso contrario. Abbiam fatto un manifesto e l’abbiam chiuso in buste intestate a varie case editrici, indirizzandole ai professori, per la maggior parte donne, delle scuole di Torino. Già abbiamo avuto prove che i volantini son stati ricevuti e hanno avuto un certo effetto. Pillo è partito, con una valigia piena di questi manifesti, per Casale e Alessandria, dove, appoggiandosi a certi suoi conoscenti, li farà pervenire ai professori del luogo. Ho avuto oggi notizia che Gianni è arrivato in Svizzera sano e salvo: e ne provo un grande sollievo. Dalla Germanasca giungono invece notizie allarmanti, anche se confuse e contraddittorie. Pare che la valle sia stata attaccata, ma non si sa con quale risultato. Domani andremo a vedere.”

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“ Appena tornati sulla strada provinciale, incontrammo un gruppetto di ragazzi che scendevano  verso Perosa. — Che cosa capita più in su? — chiesi con naturalezza.

Il più alto ci squadrò con diffidenza e non rispose. Ricordo come anche in quel momento provassi un senso di pena al pensiero dei segni che le circostanze crudeli e innaturali avrebbero lasciato su quei fanciulli. Ma gli altri furon più loquaci. – Sono arrivati sino in fondo alla valle, – disse un piccolino, evidentemente fiero d’esser così bene informato. – Ne sei sicuro? – chiesi. – Allora non si può andare a Praly? – Oh, no. Han fatto saltare il ponte di Pomeifrè e ci sono tedeschi di guardia. Ettore e io ci scambiammo uno sguardo desolato: inutile proseguire allora. – E i partigiani? – chiesi ancora. – Si son nascosti su per le montagne e nelle grotte, – rispose il bambino. – No, non è vero, questo non si sa, – intervenne il più alto con tono di prudenza ammonitrice; – non si vedono più: ecco tutto. – Ma non hanno combattuto? – Han combattuto e come! – disse il piccolo. – Han persin buttato giù un aeroplano! E un po’ più in su c’è un morto. M’aggrappai al braccio di Ettore, con la sensazione d’impazzire. – Noi ce n’andiamo, – dissero i ragazzi. – Buon giorno. – Buon giorno, – rispose Ettore; poi si rivolse a me, consolatore e pietoso: – Ma no, via! Che cosa vai a pensare? – Andiamo! – riuscii appena a pronunciare, supplichevole. Proseguimmo: non c’eran più monti e prati intorno; ma solo un abisso gelido e vuoto. Così, pensai, doveva essere l’inferno. A poca distanza dal Pomaretto, vedemmo, ferme sul ciglio della strada, un gruppo di donne, di cui una con un bimbo addormentato in una carrozzella. Capimmo, dal loro atteggiamento e dall’espressione del loro volto, che doveva essere in quel punto. E infatti, nel breve tratto di prato, fra la strada e la roccia della montagna, seminascosto da un mucchio di sassi, giaceva il partigiano ucciso. No, non era Paolo, anche se non se ne scorgeva il viso, reclino. Ma non provai nessuna reazione di sollievo. Una pena insostenibile mi scosse tutta alla vista di quella giovane carne denudata e straziata, come se fosse stata la mia stessa carne, quella di mio figlio. Mai come in quel momento sentii quanto sia forte l’istintiva profonda solidarietà materna per cui ognuna sente come figlio suo ogni figlio d’ogni altra donna. Era la prima volta che venivo visivamente, fisicamente a contatto con la crudele realtà del massacro. Durante i bombardamenti, il caso m’aveva risparmiato la vista di vittime umane. C’è una differenza enorme tra vedere e sentir raccontare, sia pure con la maggior ricchezza di particolari. E s’anche ci si può sentimentalmente commuovere – per le loro associazioni e il loro significato umano – dinanzi agli alberi schiantati e alle case in rovina, nulla, neanche la distruzione dei più giganteschi edifici e delle opere d’arte pia famose è neppur lontanamente paragonabile alla soppressione di un’unica, piccola, insignificante vita umana.

Mi pareva che non avrei mai più potuto sorridere, che mai più avrei potuto ascoltare con gratitudine le risate di Paolo e dei suoi compagni: quando l’ordine dell’universo è sconvolto, non si può più credere neanche alla realtà del sole. Mi misi a piangere, a singhiozzare forte, senza riuscire a frenarmi, versando finalmente le lagrime che in quel mattino eterno, fuori del tempo, m’eran venute gocciando nel cuore. Le donne mi guardarono stupite. C’era pena anche nei loro occhi; ma, dopo due giorni, l’impeto della pietà s’era un poco attenuato. – Lo conosceva? – chiesero. Feci di no, col capo, senza riuscire a parlare. Ed esse allora presero a raccontare, alternandosi, come in un coro:

– Si chiamava Davide.

– E’ di Pramollo.

– Ha padre, madre e una sorella.

 – E’ rimasto indietro quando è venuto l’ordine di ritirarsi.

– Voleva far saltare la roccia per ostruire la strada.

– L’ han preso mentre scendeva.

– Gli han sparato subito, poi l’han pestato coi fucili.

– I tedeschi ci han proibito di toccarlo.

– Stiam qui per non lasciarlo solo.

– Hanno avvertito il padre e la madre.

 – Tra poco saranno qui.

 Povero piccolo Davide! Era una di quelle vedette avanzate su cui la difesa della valle m’era parsa così ben fondata. Non era colpa sua, ma delle forze soverchianti, l’inevitabile disfatta. Lui aveva fatto il suo dovere. Sino all’ultimo. Ed era stato ucciso. A poco a poco i miei singhiozzi si calmarono. Cercai di coprire la spoglia inanimata, comprendendo, anche se ne capivo l’impotente vanità, il valore di certi gesti rituali. Salutammo le donne e ci avviammo per ritornare. Non so che cosa avrei fatto se non avessi avuto Ettore accanto: forse sarei corsa urlando contro i primi tedeschi che incontravo; forse mi sarei lasciata cadere in terra aspettando che un camion mi sfracellasse. Non so. Camminando, vidi, attraverso le lagrime, che nei prati spuntavan timide le prime violette. – Ma perché – dissi quasi gridando, – perché nascono ancora le viole su questa terra? A che cosa servono? Ma, dopo qualche centinaio di metri, una bimba giunse correndo sul prato accanto e, con piccole grida di gioia, si mise a raccogliere le violette: una bimba di quattro o cinque anni, con le treccine bionde, in tutto simile a Graziella. – Ecco, vedi, – mi disse Ettore allora, – perché nascono le violette. Perché le Grazielle di tutto il mondo possano raccoglierle ed essere felici. Nella sua semplicità, aveva, come sempre, trovato la risposta giusta. Guardai la bambina e compresi che avrei ancora potuto sorridere.”

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“ Quando uscimmo, benché non fossero ancora le cinque, il sole s’era già nascosto dietro i monti; scendeva dalle gole un vento gelido. La piccola conca che m’era parsa, giungendo, una calma oasi piena di sole, mi pareva ora una scena di vuota desolazione. Guardai le montagne che chiudevan la valle, nude e ancor coperte di neve in alto, illuminate da un’ultima indugiante striscia di sole. Pareva tutto così tranquillo lasso. Ma la ragazza aveva detto: — Hanno sparato tutto il giorno Pensai ai nostri ragazzi, stanchi, affamati, minacciati e braccati da tutte le parti, come bestie inseguite. L’ottimismo che m’aveva sostenuta per tutto il giorno mi parve puerile, assurdo; e per un momento credetti d’impazzire. Fallita ogni umana speranza, cercai aiuto, come due giorni prima, nella coscienza d’una ineluttabile, superiore eternità ideale. II saggio di Piero su Matteotti non finiva forse dicendo: «La generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa: dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta»? E questi «volontari della morte» non eran forse i ragazzi che combattevano su quei monti la loro disperata battaglia? E non c’era una superiore, logica giustizia nel fatto che in questa generazione ch’egli aveva, con l’opera e con l’esempio, voluto creare, ci fosse, animato dal medesimo spirito, anche il figlio suo? E ancora una volta mi dissi che, s’anche mi fosse stato possibile, non avrei mai cercato di trattenere Paolo, di tenerlo al sicuro. Ognuno porta con sè un destino, che non è ordito dagli astri, ma determinato dalle qualità intime di ognuno: e il più grande delitto contro la vita è rinnegar queste qualità per debolezza o per paura. Pur nella sua breve esistenza, Piero aveva compiuto il suo destino, assolto il suo compito, detta la sua parola. Paolo s’affacciava appena alla vita come un frutto non maturo ancora, gonfio di traboccanti promesse. Ma soltanto l’imperfezione della nostra vista esige la conferma di risultati sensibili e concreti. Ci son gesti, apparentemente, razionalmente inutili, che hanno invece un significato ineluttabile e profondo. Non c’era in questi pensieri nessun sorriso d’umana consolazione: eran come l’arido scoglio inospitale a cui il naufrago disperatamente s’aggrappa benchè le asperità lo feriscano e non consentan riposo. Non volevo, non potevo naufragare; e riuscii, pur nell’angoscia, a ricondurmi a un certo doloroso equilibrio.”

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 “ 7 aprile. Son stata da Irma, dove si son messe le basi per un sistematico invio di pacchi ai prigionieri politici di Torino che son circa un migliaio e che fanno la fame se non ricevon nulla di fuori. Irma si è  offerta di cucinar delle torte; e sin da domani preparerà cibi per un gruppo di francesi che, non avendo parenti qui, sono in pessime condizioni. La bionda Paola Jarre s’incarica di portare i pacchi alle carceri: e penso che in molte circostanze il suo bel viso radioso gioverà ad ammansire qualche cerbero. Ritirati da Castagnone i manifestini sull’avvenuta fucilazione, me ne son preso un certo numero e, prima di partire, li ho appiccicati in diversi treni fermi in stazione e ancora pressoché vuoti; altri ne ho sparsi nel treno e infilati nelle borse e nelle tasche durante il viaggio; altri ancora ne ho lasciati, con l’aiuto di Cesare, nella stazione di Bussoleno, durante la fermata.”

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“ 9 aprile, Meana. E’ Pasqua. Ma non c’è pace nel mondo. C’è il sole, i pioppi incominciano a metter le prime foglioline tenere; i prati intorno son pieni di violette e di margheritine; ma su tutto c’è come un velo di tristezza impalpabile che rende smorto il sole e vizzi i più bei colori. Oggi, con Paolo, abbiam parlato a lungo della Germanasca. Nonostante alcuni lati positivi, l’esperienza in fondo non lo ha convinto. I’ occupazione d’intere zone, se può essere necessaria e a volte  anche utile, non è per lui la vera guerra partigiana: all’euforico entusiasmo della conquistata libertà succede ben presto l’ indifferenza della routine, vien fatto naturalmente d’abbandonarsi, d’allentare la tensione, d’illudersi che il sogno possa durare. E quando inevitabilmente, per forza di cose, viene il risveglio, all’entusiasmo succede il disorientato scoraggiamento: e non nei partigiani soltanto, ma anche nelle popolazioni civili che ne seguono le vicende e il destino. La guerra partigiana, secondo lui, non deve conoscere abbandoni né acconciarsi ad abitudini e, s’anche deve necessariamente essere inquadrata in un disegno d’insieme, deve però fondarsi sempre sull’iniziativa da cui originariamente è nata, e non burocratizzarsi mai. L’esercito partigiano non dev’essere una bella o una brutta copia d’un esercito regolare, ma nascere spontaneo dalla volontà cosciente del popolo. Per lui oggi non sono pensabili ne augurabili grandi azioni; meglio limitarsi a una continua opera di molestia, di sabotaggio, di resistenza attiva. Bisogna dare ai giovani il senso che son loro i responsabili d’ogni azione, piccola o grande, che si senton di compiere, non offrire nuove formule, nuove strutture in cui, ancora una volta, più o meno comodamente possano adagiarsi.”

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“ 4 aprile, Torino. Hanno arrestato tutti i membri del Comando Militare delle Formazioni militari del Piemonte, mentre si recavano a una riunione nella sacrestia di San Giovanni: avevan con se carte, documenti, denaro. La loro posizione è gravissima. Hanno imbastito una specie di processo: ed evidentemente per dare un esempio intimidatorio li hanno condannati a morte. Si spera ancora d’ottenere una grazia, un rinvio che permetta di salvarli in qualche modo. Ma la speranza è poca. Gli amici, che ho visto oggi, sono letteralmente disfatti. Tutti gli arrestati si sono comportati in modo magnifico. Udendo la sentenza, il generale Perotti ha dato l’attenti e ha gridato: – Viva l’Italia! – Giorgio ha assistito al processo e ha potuto abbracciare Braccini. E a Braccini soprattutto che penso, perchè è l’unico che conosco. Per tutto il giorno son stata come ossessionata dalla sua voce: «Signora, come sta il suo cane? M’accorgo quanto sia profondo il legame che ci unisce a lui. Eppure, prima del 10 settembre, non lo conoscevamo. Non è un vecchio antifascista, sostenuto da una lunga tradizione, rafforzata da anni di fede e di lavoro clandestino. E’ un uomo nuovo che ha capito il significato dell’ora in cui vive e si è buttato nella battaglia con un tesoro intatto di coraggio e di energia[…]

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“6 aprile. Non c’è limite. I colpi si susseguono, implacabili. Sandro Delmastro è stato ucciso.

Stimandolo in pericolo dopo l’arresto di Braccini, con cui era continuamente in contatto, gli amici decisero di mandarlo per un po’ di tempo nel Cuneese, presso le nostre bande. A un posto di blocco lo fermano, non son convinti dai suoi documenti, lo fanno salire su un camion per portarlo a Cuneo. All’ingresso della città il camion si ferma un momento e Sandro si butta giù sperando di fuggire. Una scarica di mitraglia lo abbatte. Atroce. Più atroce ancora della fine di Braccini e degli altri che hanno potuto almeno opporre la loro coraggiosa dignità alla condanna, giudicando i giudici con la stessa loro condotta; più atroce ancora forse della spaventosa fine di Emanuele che ha potuto levarsi nel martirio al di sopra dei suoi aguzzini. Una fine simile è assurda, senza senso, senza consolazione: come se oltre alla vita gli fosse stato tolto anche il diritto a ben morire. Ma forse invece, a pensarci bene, questa morte priva d’ogni atteggiamento retorico, l’ogni possibilità d’esaltazione, è proprio quella che, potendo, avrebbe scelto per se Sandro: così semplice, così modesto, così schivo di gesti d’ogni genere. Sandro non apparteneva alla mia generazione in cui si sognava — e ancora spesso si sogna — di morire con una palla in fronte, avvolti in una bandiera. Apparteneva a quella generazione di “ volontari della morte” preconizzata da Piero, che affronta il destino qual’ è nella sua aridità tragica, senza bisogno d’abbellirlo, di rivestirlo d’aure eroiche: tanto più eroi in quanto non vogliono esserlo, non sanno nemmeno di esserlo. Penso allo strazio di Ester. Ricordo quando vennero qui insieme, innamorati e felici. E ricordo l’ultima volta in cui lo vidi. Ci eravam trovati per caso alla fermata d’un tram e, in ossequio alle regole cospirative, avevam finto di non conoscerci, limitandoci a una strizzatina d’occhi e a un rapido sorriso. Durante il tragitto in tram, l’avevo osservato come se fosse stato un estraneo qualunque: aveva la barba lunga, il colletto dell’impermeabile sdrucito. Uscivo allora da un colloquio con un industriale con cui mantenevo certi contatti; non avevo potuto fare a meno d’osservare la sua bella camicia di seta bianca stirata di fresco, la piega perfetta dei suoi pantaloni; il contrasto fra la sua aria d’elegante benessere e l’aspetto stanco e malandato di Sandro — in cui si rifletteva l’aspetto della maggioranza dei nostri amici — m’aveva colpita con un senso di dolorosa ingiustizia. A un certo punto egli era sceso, gettandomi uno sguardo di saluto, e l’avevo seguito con gli occhi con una tenerezza materna, piena di speranza e di promessa. Non sarebbe stato sempre cosi: un giorno anche lui avrebbe avuto una vita tranquilla, una casa, gli abiti in ordine… E invece non l’ho pia visto; e per sempre lo ricorderò come mi apparve quell’ultima volta, nella sua semplice indifferenza d’anonimo eroe.”

“ 17 aprile, Meana. Hanno ucciso Walter Fontan, giovane nativo di Exilles, di grande coraggio e intelligenza, che stava anche lui tentando di organizzare gruppi di partigiani nell’alta valle. In questi ultimi tempi s’era specializzato nel far scappare in montagna, armi, equipaggiamenti e tutto, i gruppi di russi bianchi di presidio in molti punti della ferrovia. Finora gli era andata bene; ma una sera uno dei russi l’ha tradito. Sceso, con alcuni compagni, al casello per portarlo con sé, Walter ha chiamato, secondo I’accordo: – Ivan! Ivan! – Non ricevendo risposta, è entrato nel casello e una scarica di mitraglia l’ha abbattuto.Da due giorni piove ininterrottamente. Oggi Paolo a andato al Cervetto a prender accordi con Ugo. Andrà su lunedì prossimo, ma continuerà a tenere i contatti con Susa. Al Cervetto, con Ugo, ci son dei bravi ragazzi tra cui due suoi a compagni di scuola: Trattenero e Davi, di cui uno è stato, prima di venire in montagna, preso dai fascisti e crudelmente pestato; ma ha saputo resistere e tacere. Ci sono anche due inglesi e diversi russi. Gl’inglesi son buoni, disciplinatissimi, ma lenti e poco furbi; uno di questi, di nome Andrew, tutte le volte che pulisce la rivoltella si ferisce in qualche parte. Oggi s’era bucato un piede. – Sei stupido, – gli ha detto Ugo. – No stupido; mala fortuna, – ha risposto Andrew, impassibile. I russi sono invece indisciplinati, ma coraggiosi e audaci sino all’incoscienza. Tutto va bene finché non trovan da bere; se bevono, voglion subito mettersi a sparare: il  che non è sempre opportuno nè comodo. Uno dorme perennemente con la testa sulla cassetta del T4, per paura che gliela portino via. Un altro è arrivato oggi con una bomba a mano prelevata in qualche posto e, con l’aria di voler fare un bello scherzo, l’ha posata sulla stufa accesa intorno a cui erano raccolti i compagni.”

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“14 aprile, Torino. Anche il giovanissimo Franco Dusi che, per eccesso di scrupolosa prudenza, avevo cercato di tener sinora fuori del gioco, è oggi comparso in veste di combattente. Attraverso le ragazze Ricci è venuto in contatto col movimento clandestino ora lavora con le nostre formazioni del Canavese, con l’entusiasmo e lo slancio della sua generosa esuberante natura. E anche se, soprattutto per sua madre, avrei preferito non saperlo in pericolo, in fondo, per lui, ne sono lieta. Nessuna considerazione di nessun genere deve poter diminuire o togliere ai giovani quella spontanea fioritura di gioioso entusiasmo che è il “primo amore”, sia esso per una donna, per un paese o per un’idea, o forse per tutte queste cose insieme. Ho letto negli occhi di Franco ch’egli sta ora vivendo la sua ora meravigliosa e senza uguale.”

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26 maggio. Di nuovo oggi Paolo ha corso un grave rischio da cui s’è salvato quasi per caso. Scendendo a Susa per la solita scorciatoia, la trova a un certo punto sbarrata dal filo spinato. Insospettito e prudente, invece di saltarlo con un salto, pur avendo fretta ed essendo già in ritardo, s’acconcia a tornare indietro e a prendere un’altra strada. Al ritorno gli dicono che i tedeschi avevan minato e chiuso il sentiero nei pressi della ferrovia, senza però curarsi di metter nessun cartello d’avviso. Una bimba di dodici anni, meno prudente di Paolo, ha scavalcato il filo spinato ed è stata orrendamente lacerata; trasportata all’ospedale di Susa, è morta dopo poche ore.”

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“ 9 giugno, Torino. Giornata vertiginosa. Ho calcolato che oggi son passate in casa mia in cinquantaquattro persone. E qualche volta mi chiedo se questo mio affidarmi all’istinto e alla sorveglianza di Espedita e alla benevolenza dei vicini non rasenti l’incoscienza. Ma poi mi dico che difficilmente il punto di riferimento rappresentato dalla mia casa sarebbe sostituibile. Oggi, per esempio, è arrivato un bel tipo che si fa chiamare Albertino, giovane audacissimo che ha fatto evadere diversi amici dalla prigione in condizioni addirittura rocambolesche. L’ho riconosciuto subito perché ha i capelli ossigenati e cammina col bastone fingendosi zoppo. Gli ho detto che, se fossi un poliziotto, il suo aspetto mi colpirebbe; ma lui dice che ne ha fatte troppe per circolare coi suoi connotati naturali e che cosí si sente un po’ protetto. E se si tratta di stato d’animo, non c’è evidentemente nulla da dire. Ester che, invece di abbandonarsi alla sua pena, lavora più attivamente che mai, l’ha subito sistemato in una casa che servirà a lui e a diversi altri «clandestini».

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 […] I tedeschi se n’ eran veramente   andati, lasciando il paese a medicar sommariamente le proprie ferite. Da un primo calcolo approssimativo, pareva che le case bruciate fossero una settantina. Erano state bruciate senza scelta, senza discriminazione. Che, com’io sostenevo, nel paese non ci son spie mi par dimostrato dal fatto che non la casa d’un partigiano è stata toccata. Han bruciato in primo luogo le case disabitate, abbandonate dagli sfollati, dopo averle vuotate di quanto contenevano; poi altre di paesani, qua e là a capriccio, a caso. Da nessuna parte han trovato nulla che giustificasse la rappresaglia che ha avuto evidentemente un semplice scopo di saccheggio e di terrorismo. In alcuni posti i tedeschi son stati brutali e spietati e non han permesso alle donne terrorizzate di portar via nulla: uno spinse il sadismo sino a gettar tra le fiamme il sacco di poveri stracci che una vecchietta era faticosamente riuscita a trascinar fuori; in altri han rubato quel che capitava loro a tiro, denari e oggetti d’oro; in altri ancora son stati corretti e indulgenti, come da me. Ma, anche quelli che non hanno avuto la casa bruciata, son stati rovinosamente colpiti dalla perdita delle bestie. I tedeschi le han portate via tutte, vacche, pecore, muli, con difficoltà, a forza, perché non volevano andare. Son bestie che capiscono, conosente come dicono qui, attaccate al padrone che divide con loro fraternamente la stalla e la fatica; alcune son tornate indietro, nonostante i colpi, muggendo disperatamente, con angoscia quasi umana. Il vecchio Martin dei Cordola, che ha oltre diciotto anni, per due volte è riuscito a spezzare la corda con cui lo trascinavano, e a tornare indietro correndo, nitrendo; ma l’han portato via lo stesso. Dralin, raccontandolo, aveva gli occhi pieni di lagrime.

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  12 ottobre. Franco Dusi è morto fucilato, nel Canavese. Penso a sua madre. Ma penso soprattutto a lui: a lui come lo vedevo bambino quando andavo a prender Paolo alle elementari e sorridevo al suo visetto arguto e alla sua aria di ponderata importanza; e ricordo quando venne a dar l’esame d’ammissione al «Balbo» e sbalordí tutti con la sua conoscenza del sistema alpino; e come lo vidi crescere, anno per anno, accanto a Paolo. Me li vedevo dinanzi, nello stesso banco, a scuola, e perpetuamente cianciavano e si litigavano; e me li vedevo insieme a casa quando preparavano la licenza e traducevamo Sofocle e leggevamo Dante e Spinoza; e preparavamo le voci per il Dizionario Bompiani; e si andava insieme in montagna. E sempre provavo, guardandolo, cosí bello e forte e intelligente, un intimo materno compiacimento e per lui, come per Paolo, costruivo i sogni più belli. E quando venne l’ora del pericolo, cercai di tenerlo fuori, quasi dominata da un timore presago. Ma Franco entrò lo stesso nella battaglia; non era uno che potesse starsene fuori. E ora è caduto. Pare impossibile, dopo simili colpi, poter continuare a camminare.”

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“ 21 ottobre. Partita per Milano l’altro ieri alle tre del pomeriggio, ho dovuto fare a piedi il tratto Brandizzo-Chivasso, con allarme durante il trasbordo; poi di nuovo, in piena notte, i sei chilometri da Vercelli a Borgo Vercelli, arrivando a Milano alle tre del mattino; sino alle cinque, ho potuto starmene a leggere nel caffè della stazione, ma poi l’han chiuso e allora ho dovuto rifugiarmi nella sala d’aspetto piena di povera umanità stanca, seccata e maleodorante dove, se ho voluto sedermi, ho dovuto mettermi in terra. Appena giorno, sono uscita e, attraversando a piedi tutta Milano, sono andata da Adriana. Ho visto poi Vittorio, con cui ho passeggiato a lungo parlando di tante cose e anche del problema delle donne che in questi giorni particolarmente mi affligge. Poi sono andata a una scuola a cercare una maestra amica; ma c’ero appena arrivata quando suonò l’allarme: vidi con angoscia la disorganizzata lentezza con cui le maestre spaventate guidavano i bambini negli inadeguati rifugi e pensai rabbrividendo a quel che sarebbe accaduto se una bomba fosse caduta sulla scuola. Trovar la maestra in quella confusione non era possibile e perciò me ne andai prima che l’allarme fosse terminato. Seppi ben presto che quanto avevo paventato per la scuola in cui occasionalmente mi trovavo era accaduto in realtà in una scuola alla periferia, a Gorla: una bomba aveva colpito in pieno l’edificio, facendo strage dei bimbi indifesi. Mentre m’avvicinavo a Porta Vittoria, dove c’è un ambulatorio, vidi arrivare una serie d’ambulanze cariche di piccole creature orrendamente straziate. La gente guardava costernata, con un’angoscia piena di collera impotente: molti uomini e donne piangevano; a un certo punto m’accorsi che anch’io singhiozzavo forte. Al pomeriggio, in casa di Adriana, si tenne la prima riunione dei Gruppi di difesa al completo: c’eran le due comuniste che già conosco, Bruna e Lina, c’era Adriana e c’ero io per il Partito d’Azione; e c’era una socialista, Lina Merlin; e una liberale, e una democristiana. E s’eran tutte messe in ghingheri per l’occasione: una aveva la volpe, l’altra degli straordinari guanti traforati, una terza un curioso cappello con una penna rossa: solo le comuniste e io (Adriana è sempre naturalmente elegante) eravam vestite come al solito, alla buona; e non sapevamo se vergognarcene o provarne compiacimento. I discorsi furono un po’ come l’abbigliamento: molti complimenti, molte affermazioni astratte, molti riguardi per le reciproche suscettibilità. Non fu certo un convegno molto conclusivo, ma ne risultò chiara una volontà precisa, da parte di tutte, di lavorare lealmente insieme: e questo è indubbiamente un buon principio. Stamane, partita alle sette, rifeci a piedi il tratto fra Borgo Vercelli e Vercelli ma, sotto una pioggia dirotta e senza le amene storielle di Nada, fu assai meno piacevole dell’altra volta. A Chivasso, per non esser costretta ad andare a piedi sino a Brandizzo, presi il tram locale che ebbe però un enorme ritardo. Arrivai a casa dopo le quattro, fradicia, intirizzita e depressa. I partigiani jugoslavi han liberato Belgrado. Gli Alleati hanno occupato Cesena e Aquisgrana; ma tutto questo mi sembra infinitamente lontano.”

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“ 23 giugno. Alla riunione dei Gruppi di difesa abbiam diviso la città in cinque quartieri. Il lavoro d’assistenza ha acquistato ormai dimensioni notevoli e la divisione s’imponeva. A ogni quartiere presiederà un gruppo di donne (possibilmente una per partito) che provvederà a distribuire, col denaro fornito dal Cln, sussidi alle famiglie dei prigionieri politici, dei deportati, dei partigiani. È un lavoro delicato perché bisogna trovare queste famiglie e avvicinarle senza insospettirle e senza crear loro dei guai: è un’attività che richiede qualità di prontezza e d’intuizione. Finora le donne a cui per parte mia ho affidato   l’incarico han funzionato molto bene; speriamo che, coll’ampliarsi del lavoro e quindi coll’aumento degli elementi impiegati, il livello non si abbassi.”

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 [….]- Verso sera arrivò Silvia, col bracciale della Croce Rossa e la notizia che si combatteva nei pressi del Giardino della Cittadella: era l’ultima zona di difesa dei fascisti e dei tedeschi che ci avevano i loro Comandi, la Guardia Nera nella Caserma della Cernaia, la Questura. Una notizia simile, il pensiero del pericolo in cui si trovavano Paolo ed Ettore, l’impossibilità di correre a rendermi conto di quanto accadeva, mi avrebbero in un altro momento riempita d’insostenibile orgasmo. Ma ero veramente su quel piano d’accettazione in cui le cose nostre non valgon piú delle cose degli altri. Capii che non bisognava pensare a quel che avveniva alla Cittadella: c’eran troppe cose da preparare per l’indomani. Se veramente il giorno dopo si era liberi, bisognava far stampare subito un nuovo numero de «La nuova realtà»; bisognava preparare un manifestino, un proclama alle donne, per i Gruppi di difesa, e per le donne GL; bisognava pensare a un breve discorso da pronunziare alla radio. Per fortuna c’era Silvia, assai più brava di me. Di nuovo Pinella accese il fuoco intorno a cui ci radunammo. C’eran tutte quelle della sera prima, più alcuni altri. Ma nessuno volle andare a dormire; a nessuno venne in mente di cantare. Per molto tempo si udì sparare insistentemente, da varie parti, lontano. Poi tutto tacque. Buon segno? Cattivo segno? Carmelina e le ragazze Ricci che avevan percorso chilometri e chilometri in bicicletta, s’addormentarono col capo sulla spalliera della sedia; Pinella, piccola attenta vestale, manteneva il fuoco acceso, e tendeva l’orecchio, piena d’ansia; e a tratti sorrideva con speranza, a tratti scuoteva il capo, dubbiosa. Silvia si mise a scrivere; e in poche ore buttò giù quattro pagine di giornale. Io non ero altrettanto ispirata. Misi giù alla meglio un manifestino, poi attaccai quello che poteva essere un discorso o un manifesto. «Donne piemontesi», incominciai; e non mi riusciva d’andare avanti. Riuscivo a non pensare al presente, ma il passato mi premeva, invincibile, sulla memoria e sul cuore. Tutto il passato, tutta la nostra battaglia: dal 10 settembre, con quei primi tedeschi, impassibili, agli angoli delle nostre strade; e poi le prime armi, e il sabotaggio ai ponti, e la neve, e i primi caduti; e poi la Gennanasca e il rastrellamento, e la tragica luce del cielo di Massello; e poi la Val Chisone e il valico del Colle delle Finestre, tutto fiorito di rododendri; e l’incendio di Meana e il povero ragazzo impiccato; e poi Beaulard e la capanna, e la Francia, e il ritorno e l’interminabile notte sul ghiacciaio. «Donne piemontesi», incominciavo; e poi di nuovo la mia mente si smarriva: contavo i morti, ne richiamavo i volti e la voce: Braccini, Sandro Delmastro, Paolo Diena, Franco Dusi, Duccio, Albertino… Mi riscuoteva un crepitar di legna sul fuoco, lo scricchiolio della penna instancabile di Silvia. Ricominciavo: «Donne piemontesi…» Solo verso il mattino mi decisi a concludere. «Tutte le donne hanno oggi un lutto nel cuore, — dissi. — Fate che questo lutto non sia stato vano». Cosí, press’a poco. In quel momento non sapevo dir altro. Ed ero stanca come se avessi scritto un intero volume.”

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“  25 aprile. Son corsa tutto il giorno come un’invasata, ma ho la sensazione – o l’illusione? – d’aver fatto tutto quel che dovevo. Ognuna delle mie donne sa dove deve andare, con chi mettersi a contatto, che cosa fare. Quelle che hanno alla loro volta responsabilità organizzative o di gruppo han radunato oggi le loro adepte e nell’ultima riunione tenutasi questa sera in casa di Natalia m’han riferito i risultati. Pare che tutto vada bene. Non c’è quartiere, organizzazione in cui non abbiamo la nostra rappresentante. Uno sciame di ragazze munito di biciclette provvederà ai collegamenti; nel deprecato caso che i nemici facessero saltare i ponti sul Po, Mila Montalenti dispone d’una barca con cui attraversare il fiume: e cosí neanche l’Oltrepo rimarrà isolato. Col valido aiuto di Espedita per la tintura, Ettore ha intanto preparato una quantità di bandiere GL di tutte le dimensioni. [….]

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 [….] Pensavo a tutto quel ch’era accaduto in quella lunghissima giornata; ma pensavo soprattutto al domani. I colpi d’arma da fuoco che si sentivano ancora lontano, di quando in quando, mi ricordavano che, nonostante l’esaltazione festosa di quel giorno, la guerra non era ancora finita; e sapevo che grosse forze tedesche erano ancora a poca distanza da Torino, a Grugliasco, nel Canavese. Ma non era questo in fondo che mi preoccupava. La lotta cruenta — anche se si potevano avere ancora degli episodi terribili (come effettivamente si ebbero, per esempio a Grugliasco) — era virtualmente terminata. Il Reich, secondo la profetica iscrizione letta nel Comando francese di Plampinet, era veramente en ruines. Presto sarebbero giunti gli Alleati. Non ci sarebbero più stati bombardamenti, incendi, rastrellamenti, arresti, fucilazioni, impiccagioni, massacri. E questa era una grande cosa.

E neanche mi spaventavano le difficoltà pratiche, materiali, che bisognava affrontare per ricostruire un paese disorganizzato e devastato: ché le infinite risorse del nostro popolo avrebbero trovato per ogni cosa le più impensate e impensabili soluzioni. Confusamente intuivo però che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza – facili da individuare e da odiare -, ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare; per non abbandonarci alla comoda esaltazione d’ideali per tanto tempo vagheggiati, per non accontentarci di parole e di frasi, ma rinnovarci tenendoci «vivi». Si trattava insomma di non lasciar che si spegnesse nell’aria morta d’una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che avevam visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati. Sapevo che – anche caduta, con l’esaltazione della vittoria, la meravigliosa identità che in quei giorni aveva unito quasi tutto il nostro popolo – saremmo stati in molti a combattere questa dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri, sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stato un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico, immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti, perseguir la propria luce e la propria via. Tutto questo mi faceva paura. E a lungo, in quella notte – che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo – mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che m’accingevo ad affrontare con trepidante umiltà.”